La mamma ti aspetterà.
Ti aspetterà per nove lunghi mesi. Per poterti imprimere il primo bacino, per contare ossessivamente i tuoi ditini, per lasciarsi trapanare le orecchie dalle tue urla da guinness.
La mamma attenderà dolorante – con il deretano inchiodato al divano e le formiche al piede destro – che tu termini con prosaica calma la tua maratona di latte.
La mamma consumerà l’orologio con lo sguardo, quando ti affiderà la prima ora, per la prima volta, a un altro qualunque essere umano.
La mamma ti aspetterà per interminabili mezz’ore, quando entrerai le prime volte all’asilo per il tanto atteso inserimento.
La mamma ti penserà. E attenderà per piovose mattine e soleggiati pomeriggi, quando sarai impegnato nelle attività scolastiche. E l’attesa sembrerà infinita, se quando ti ha salutato quella mattina tu piangevi, perché volevi stare con la tua mamma.
La mamma attenderà il pullman che ti porterà a casa dopo la gita, lo scuolabus che ti riporterà indietro dal Palazzetto dello Sport, l’auto della nonna che quel giorno ti avrà portato al parco.
La mamma indugerà a braccia conserte fuori dall’aula di danza e temporeggerà battendo il piede accanto agli spogliatoi di calcio.
La mamma pazienterà mentre svolgerai i compiti, aspetterà che tu ti sia lavato le mani, accetterà che tu finisca il tuo cartone animato preferito. Ancora cinque minuti, mamma.
La mamma ti aspetterà sveglia, la sera, la notte, quando uscirai con gli amici e l’insonnia delle mamme dilagherà prepotentemente. E dilaterà il tempo in prolungati attimi di angoscia.
La mamma aspetterà e aspetterà, e vivrà momenti lunghissimi nell’attesa di te, per poter vedere il tuo broncio e il tuo sorriso.
Ma allora perché, alla fine, questo tempo che sembrava così lungo, così infinito, così duro a passare, è già volato via a manciate di mesi e a grappoli di anni, in un brevissimo, beffardo secondo?